(Pubblicato su “Sole 24 ore”)
Il dibattito sul merito e sulla selezione nella Pubblica Amministrazione continua ad animare il panorama accademico e politico italiano. Una parte significativa della dottrina giuridica, con autorevoli esponenti come Sabino Cassese, difende a spada tratta il concorso pubblico come presidio costituzionale irrinunciabile. Un principio certamente fondato sull’articolo 34 della Costituzione, ma la questione è: questo modello risponde ancora alle esigenze della PA del 2025?
La PA italiana soffre di una contraddizione strutturale: una frenesia normativa che, paradossalmente, ha prodotto immobilismo. Negli ultimi vent’anni, ogni governo ha promesso riforme radicali, generando stratificazioni normative che hanno ingessato ulteriormente il sistema invece di sbloccarlo.
Questo “riformismo compulsivo” ha creato un labirinto di regole spesso contraddittorie che paralizzano l’innovazione nei processi di reclutamento. Mentre i decisori politici annunciano periodicamente “rivoluzioni epocali per la PA”, i concorsi continuano a svolgersi secondo logiche anacronistiche.
Il concorso tradizionale misura prevalentemente la capacità di studio e memorizzazione, non le competenze pratiche o il potenziale. In un’epoca in cui l’efficienza dei servizi pubblici è cruciale per la competitività del Paese, possiamo ancora permetterci un sistema che non valuta ciò che i candidati sanno realmente fare?
È un dato di fatto che nelle pubbliche amministrazioni il 98% del personale ottiene il punteggio massimo nelle valutazioni. Questo dovrebbe allarmare: non stiamo misurando la performance, ma perpetuando un sistema autoreferenziale.
Pur mantenendo il principio costituzionale del concorso, esistono spazi di innovazione immediati che non richiedono ulteriori rivoluzioni normative. Una mappatura precisa delle competenze necessarie per ciascun ruolo permetterebbe concorsi finalmente calibrati sulle reali esigenze organizzative. Questo approccio è consolidato nel privato, perché non adottarlo sistematicamente nel pubblico? Le competenze acquisite in contesti diversi – dal privato al terzo settore, dal volontariato all’esperienza internazionale – dovrebbero essere riconosciute come elementi qualificanti, non come semplici titoli. Chi lavora già nell’amministrazione sviluppa un patrimonio di conoscenze che raramente viene valorizzato nei percorsi di selezione. Un sistema meritocratico autentico dovrebbe riconoscere anche il “merito sul campo”, soprattutto per i concorsi della dirigenza, dove l’esperienza pratica di gestione è cruciale quanto la preparazione teorica. Integrare i test tradizionali con metodologie di assessment moderni (business case, prove situazionali, project work) consentirebbe inoltre una valutazione multidimensionale dei candidati.
Il dibattito italiano è spesso polarizzato tra difensori acritici del concorso tradizionale e sostenitori di una flessibilità che rischia di sfociare nell’arbitrio. È un falso dilemma che paralizza l’innovazione.
La vera sfida non è scegliere tra rigore e flessibilità, ma costruire un sistema di selezione che, pur mantenendo i principi di trasparenza ed equità, sappia cogliere la complessità del merito in tutte le sue dimensioni. Occorre superare il concetto di concorso come “coperta di Linus”, un simbolo di sicurezza a cui aggrapparsi acriticamente, per trasformarlo in uno strumento realmente efficace.
In questo contesto, la riforma proposta dal ministro Paolo Zangrillo merita attenzione. Il suo tentativo di coniugare il principio costituzionale del concorso con la valorizzazione dell’esperienza e la valutazione della performance rappresenta potenzialmente un cambio di paradigma.
La sfida sarà tradurre questi principi in pratiche concrete, evitando che si trasformino nell’ennesimo esercizio di ingegneria normativa senza impatto reale. L’approccio deve essere pragmatico e incrementale: sperimentare nuove pratiche, valutarne l’efficacia, istituzionalizzare ciò che funziona.
Molte delle innovazioni necessarie possono essere implementate senza attendere l’ennesima rivoluzione legislativa, semplicemente attivando gli spazi di flessibilità già esistenti nel quadro normativo attuale, come la riforma Zangrillo cerca di fare.
È tempo di superare la retorica del merito per costruire una meritocrazia autentica, capace di attrarre e valorizzare i talenti di cui la PA ha disperatamente bisogno. Solo così potremo trasformare l’amministrazione pubblica da ostacolo a motore della competitività del Paese.
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